100 e + vite

Galleria Spazio 6, Verona 2008

 di Maria Teresa Ferrari

Ho chiesto a Maria Teresa Cazzadori di mettere nero su bianco le emozioni che prova pensando al suo lavoro. Lei di getto ha scritto 100 e + titoli, ma sono convinta che ce ne siano altrettanti, pronti a prendere vita. Per lei tutti hanno un valore, perché tutti insieme costruiscono il pensiero motore del suo lavoro artistico. Sono le 100 e + emozioni nate dallo “scontro dei paradossi”. Sono le 100 e + vite che trasferisce nelle sue opere.

Maria Teresa Cazzadori è generosa nel condividere con noi il suo intimo sentire. E la condivisione stimola l’incontro. Di quell’incontro noi serbiamo una semplice parola, o forse un pensiero, un’emozione. Chissà. Non bisognerebbe mai aggiungere nulla a quanto si vede. Si tratta di ritrovare quella o quelle parole che diranno semplicemente ciò che hanno visto gli occhi. Per questo lasciamo volar via i suoi titoli riflessi, ma, leggendoli di corsa o lentamente, divorandoli o assaporandoli, a seconda dei gusti e del piacere, ce ne sarà uno che, più d’ogni altro, ciascuno farà suo. Ed echeggerà davanti a un bianco il cui candore non è più, o penetrando un segno che evoca altri segni. Oppure in un oggetto mai lì per caso. Perché i suoi segni sono ricchi di risonanze.Mi piacerebbe che un giorno Maria Teresa Cazzadori restasse “senza titolo”.

Allora sì che quell’odioso “senza titolo”, che titola molte opere, qui avrebbe finalmente la sua ragione d’essere. Chissà cosa nascerebbe nell’assenza? La pennellata resterebbe sospesa o sola sulla tela? Il segno apparirebbe più lieve o più incisivo? Quel filo troverebbe dimora? Quante domande senza risposta. Perché quel sogno è frutto dei miei desideri e non del suo fare artistico. Perché, per Maria Teresa Cazzadori, la fuga da quel bianco assoluto alimenta la ricerca, incalzante – martellante di un esile filo. Un filo che lega a un altro filo, e poi a un altro, e a un altro ancora. In questo “incompreso dondolio di riflessioni e di tormento”, quel filo si fa sguardo.

Verso il cuore, la vita, la natura, il mondo.

Alla ricerca ostinata dell’“origine della ricerca incomprensibile”.

La insegue quell’origine, “addentrandosi nella palude”, “cogliendo oltre la barriera l’orizzonte”, “osservando l’orizzonte e scavalcandolo”, “superando il visibile”, “contemplando oltre il punto d’origine la scia dell’ultimo riflesso”. E intanto il pensiero vola. “Io e le mie opere diventiamo una cosa sola” (Cazzadori).

Sono queste parole di Maria Teresa Cazzadori ad accompagnarmi alla scoperta del suo mondo.  Queste ed altre, rivelatemi lungo il percorso, mi donano chiavi di lettura che la sola ragione non  potrebbe svelare. Diverse strade ho, infatti, seguito per incontrare lo spirito dell’artista. Andate e ritorni, non sempre comprensibili, hanno accompagnato il mio viaggio cadenzato dallo stupore. Perché ogni sua opera rivela universi, che spesso mutano giorno dopo giorno. Talvolta anche dopo anni. È lo stesso sguardo dell’artista, che ha plasmato la materia donandole nuova vita, a cogliere, strada facendo, la metamorfosi dell’opera. Perché l’amore per la ricerca – che in lei è animato dalla potenza del fare e dell’energia – è più forte di tutto e diventa il motore della conoscenza aperta al nuovo e all’imprevisto. È la luce che sorprende quando si è immersi e coinvolti nell’istante. Per questo la sua mano non racconta, ma lascia traccia.

Bisogna allontanarsi dai suoi lavori, per percepire questa sensazione impalpabile da loro lasciata. La stessa sfuggente e incorporea sensazione che l’artista coglie della realtà. La memoria è infatti il tramite, lo spazio di decantazione e al tempo stesso di riattivazione emotiva di quanto il suo lavoro ci trasmette. Così, abbandonandoci ad essa, ripercorriamo la storia dell’artista. Ogni esperienza, si sa, segna. Persino quel figurativo che appartiene ai primi anni della  ricerca di Maria Teresa Cazzadori. Ha lasciato impronte nella pittura, nell’uso del colore, nella stesura. Lì si ritrovano le orme di un paesaggio mentale astratto che si evolve nell’informale; lì matura la necessità di un segno. La sua pittura si fa sempre più rarefatta, monocroma, si veste di piccole tramature.  Ha sperimentato a lungo l’artista per arrivare alla pulizia di oggi. Dai diversi elementi incontrati, ha ricavato insegnamenti segreti. Lei non usa materiali su cui sperimentare, ma con cui sperimentare. Ed è proprio questa simbiosi con la materia che le permette di andare oltre l’opera sollecitando altre facoltà sensoriali. Così, fedele al suo percorso intimista e non a quello esclusivamente legato alla storia dell’arte, Cazzadori va oltre il quadro tradizionale.

“L’amore per la ricerca aumenta, in parallelo, ad un lavoro di scoperta della grafica, fondato su un processo memoriale di scrittura segnica evocativa. Il lavoro su carta si sviluppa principalmente attraverso la composizione di messaggi simbolici” (Cazzadori).

C’è stato un incontro decisivo, lungo il cammino. Un colpo di fulmine. Quello con la grafica. L’incisione, frutto di un processo memoriale di scrittura segnica evocativa, si sviluppa nel suo lavoro attraverso la composizione di messaggi simbolici. La lenta sedimentazione dei segni cromatici, nella continua decantazione emotiva, dona quella capacità immaginativa che affascina l’artista. Maria Teresa Cazzadori comprende che questo è il suo medium, la tecnica che gli permette di esprimere bene quell’“impronta” che sempre più connota l’opera e la identifica. Traccia palpabile anche lì dove la base è altro da carta, da tela. Dove è semplice, pura materia. È il segno a dettare legge sul suo lavoro, a contraddistinguere anche la più piccola, delicata o forte opera. Nella pratica del “mezzo grafico”, nella ricchezza delle sue possibilità specifiche, si rinnovano narrazioni e metafore visive. La grafica, che è per lei maestra e compagna di vita, la accompagnerà in tutto il suo percorso tramutandosi anche in musa.

Cazzadori scrive così la lingua del suo fare che, dall’iniziale timbro cromatico giocato sul bianco e sul nero, si muoverà successivamente su altre tonalità che rendono il suo alfabeto sempre più lirico. Segni, lettere, crittografie, geroglifici e punteggiature che si trovano nell’antichità, ma anche sulle pareti degli edifici che portano le tracce del trascorrere del tempo e della storia. Sovrapponendo la scrittura alla pittura, l’artista va alla ricerca della radice del linguaggio, evocando quei tempi antichissimi in cui “scrittura e disegno coincidevano e la linea era l’elemento primo” (Paul Klee). Così grafica e pittura vanno e vengono e spesso l’una suggerisce e stimola l’altra. Un incastro che talvolta si fa simbiosi: tutto sembra confondersi e, nello stesso tempo, tutto è al suo vero posto.  In quest’ottica, Cazzadori inizia a scrivere la sua storia oltre i confini materiali della tela e della parete, i suoi lavori diventano sempre più delle pitto-sculture. Contaminazioni di linguaggi che evocano gli artisti orientali, le cui opere, su pietre e sulla sabbia trattata con colle, raccolgono segni di una scrittura antica. In questo processo creativo, l’artista utilizza diversi tipi di materiali poveri – sabbia, legno di vario tipo, pietra, corde, vari tipi di colla, colori acrilici, smalti, pastelli, olio, pigmenti puri in polvere e supporti di vario tipo: cartone, tela, pannelli in multistrato, ecc.

Nascono espressioni vitali che crescono verso la forma, che giocano con la luce, che affondano nella materia la loro solitudine cosmica. Lo si percepisce nel silenzio del suo studio. Cazzadori unisce nell’impronta l’egida del pensiero e l’istinto della mano. E così alcune opere sembrano contenere messaggi di un altro mondo: codici antichi affiancano simboli che appartengono a un immaginario personale che emerge con forza. Talvolta è un semplice impulso sollecitato da un pensiero, da un materiale, da un piccolo, minimo oggetto ritrovato lungo una strada, calpestato dal mondo o gettato nel vuoto, che ha un senso per quell’opera, per quel disegno, per quella voce. E che spesso ha un nonsense per noi spettatori.

Ma quante opere d’arte racchiudono la loro identità nel mistero? E così, su quelle velature, il cui candore talvolta viene violato con gentilezza, le tracce e i segni svelano mondi poetici di grande sensibilità. Graffiti che oggi tornano incisi sul bianco e sul nero, nelle loro infinite variazioni. Perché nel bianco ci sono mille tonalità e l’immagine di quella polvere bianca diventa metafora di luce spirituale. Ed ecco affiorare un disegno puramente mentale, un percorso materico. Nel momento in cui viene tracciato appartiene al mondo della genesi. Ancora una volta è chiaro che per Maria Teresa Cazzadori, ciò che conta non é l’immagine ma la sua traccia.  A volte sono forme cosmiche che trattengono una forza esplosiva. Altre volte sono le stesse composizioni, nel loro divenire, che contribuiscono a tenere acceso il fuoco della curiosità. La natura è lì, in quel mondo protetto. Tra la terra, la pietra, il gesso, il ferro, la carta, il legno, l’artista dimora appagata. Gli stessi materiali diventano la sua pittura. E ogni elemento, nel momento in cui interagisce con gli altri, cessa di essere un’entità a sé stante. È proprio quell’equilibrio d’insieme che diventa accattivante ricercare.

La libertà è racchiusa tra quelle mura che rappresentano un mondo di possibilità. Tra quelle mura, scrostate, accarezzate dal tempo, tutto si riesce a modellare, a frantumare, ad assemblare. Tutto è possibile con procedimenti fisici o chimici, manuali o meccanici. L’arte povera le è cara, perché anche i materiali pesanti possono diventare leggeri. Anche arnesi desueti riacquistano vita. L’arte poveradocet. Non si tratta mai dell’objet trouvé dadaista, perché ogni cosa che l’artista sceglie si carica di vita, subisce una metamorfosi: si mescola alla pittura, diventa mezzo al pari del colore, ritrova un valore unico all’interno dell’opera. Diventa l’opera. In quella stanza lunare, Cazzadori sembra inabissarsi oltre, e ricordi, sogni, emozioni, affiorano sulla tela in modo sempre più essenziale. Tutto ciò che è forma rinasce a nuova vita dopo un processo “alchemico”. Ne rimangono tracce, non racconti. Ne rimangono segni, non cammini. Calligrafie nuove e antiche, che nascono nella psiche, da ciò che non si sa ma si indaga. Interi archivi di mondi dimenticati, ritrovati e immaginati, istanze di gioco, di indagine, quesiti.

Anche la materia rinasce davanti agli occhi della nostra memoria, scorrono le opere di chi ha fatto del segno e della scrittura la propria firma stilistica. “Chi non ha lasciato un segno sul muro, inarrestabile impulso di tracciare un segno, di fare un gesto, puro gesto sul puro muro bianco?”, si chiede Ileana Sonnabend, tra le maggiori galleriste e collezioniste di arte contemporanea. Era la presentazione della prima mostra italiana di Cy Twombly, espressionista astratto americano. Nelle sue opere i materiali si traducono sulla tela in scrittura, sublimandosi in una sottilissima trama di segni. La mano dell’artista è così sicura che non si permette di sbagliare, di tradire il senso della forma. Tra coloro che scrivono sulla tela, c’è chi, ne muta la superficie come fa Carla Accardi, chi invece invade lo spazio come Antonio Sanfilippo. Ma c’è anche chi, e penso a Gastone Novelli, inaugura una nuova ricerca che va sempre più nella direzione di una scrittura poetica. Il segno scorre sulla pagina impigliandosi nella parola e divenendo – a sua insaputa – scrittura. Novelli scrive poesie sulla tela, versi imperfetti, e proprio per questo densi, sempre tentato dalle sollecitazioni alla contaminazione dei linguaggi. Nella Cazzadori alcuni lievi palpiti rimandano a quelle suggestioni. Anzi, Cazzadori va oltre, dal momento che nelle sue ultime opere il segno si fa scrittura.

 “Mi accade spesso di considerare il mio lavoro come un abbozzo e di chiedermi quando lo stesso possa ritenersi terminato. Se, come credo, non lo sarà mai, ecco spiegato il motivo di una sua funzione: quella di spingere alla ricerca, il risultato stesso della ricerca” (Cazzadori).

È un sentire comune a chi fa ricerca in tutti i campi dell’arte. Mettere la parola fine a un’opera è arduo. Le emozioni e gli interrogativi non finiscono mai. Ogni immagine che si presenta alla fantasia è spesso prepotente e ha bisogno di essere fissata. Cazzadori gioca giorno dopo giorno la sua partita solitaria, dichiarando la propria diversità artistica che è indice di libertà. È questa la sua grande forza. Una forza che contrasta con quella paura del vuoto che sento sempre in agguato quando guardo i suoi lavori. E pensare che il vuoto è potente. Che il vuoto può chiedere, domandare, può essere musica.

Eppure quella potenza fa paura all’uomo.

Sarà anche per questo che la poesia nuda del bianco viene interrotta dalla nota di un filo, di un piccolo sasso, da un lieve sussurro metallico. Tracce al confine tra pittura e grafica, scritture psichiche che nascono da ciò che si indaga, sempre fedeli all’“alfabeto originario”. Cazzadori segue un suo intimo rituale per posare nel giusto luogo ciò che la vita le dona. Una dimora che muta alla luce di ogni giorno.