Spazio Arte Pisanello, Verona 1999
di Bruno Rosada
Perdonate una premessa. Io non mi sento alle soglie del terzo millennio, ma piuttosto alla fine del ventesimo secolo e parlerei di secolo e non di millennio, perché il millennio é una cosa troppo articolata e diversificata, per poterlo valutare in termini unitari, e parlerei di fine e non di principio, perché si sente più quella che questo. E anzi, direi che siamo alla fine di quella che ha voluto orgogliosamente definirsi la modernità. Dico orgogliosamente perché essere moderni, o meglio come dicono gli anglosassoni ” up to date”, cioè sulla punta della data, o addirittura “up to the minute”, é stato per gli artisti del Novecento la massima aspirazione, o talvolta, la massima presunzione. Tant’è vero che per non ammettere di venir superato e non smettere di essere moderno, il Novecento ha in extremis, inventato il POSTMODERNO. E l’eredità che ci lascia é il dubbio del CHE FARE? I margini di manovra non sono molti. Qualcuno addirittura ha deciso di tornare all’antico, e fa pittura colta. Altro “refugium peccatorum” molto frequentato é l’espressionismo, un certo banale espressionismo inautentico, che consente però proficui impatti tra figura e non figura.
Ma perché questa lunga premessa parlando dell’artista Maria Teresa Cazzadori? Per sottolineare un fondamentale suo merito che la riconcilia con la modernità autentica, quello di essere riuscita a far fare un passo avanti all’esperienza non figurativa, o aniconica che dir si voglia, in un momento in cui la categoria storico-esistenziale della ripetizione sembra essere la sua unica essenza ed é usata a copertura di una valenza pittorica per lo più estenuata ed ormai essenziale. Vedere l’ultima Biennale, per credere. E riuscire a distinguerla dalle ultime dieci, per capire. E un’altra innovazione ancora va attribuita a Maria Teressa Cazzadori, anche se non é stata proprio la prima a sviluppare questo tipo di discorso: la novità della tecnica grafica. Infatti questa di Maria Teresa Cazzadori é una mostra di grafica, ma qui bisogna parlare di pittura. Perché i risultati sono quelli. E lei ha trovato i margini storici per mandare avanti il discorso, ha trovato modo di operare entro gli spazi esigui rimasti all’anaconico, proprio inventando una tecnica grafica che permette di ottenere quei risultati. Non occorre essere devoti a Freud per cogliere nella disposizione delle masse, nella accettazione dei colori, nelle diverse qualità dei segni l’emergere di tensioni che nascono nel profondo e si confrontano con guide archetipiche come se l’inconscio collettivo ponesse una necessaria disciplina di natura estetica a quelle forme che sgorgano incontenibili e risultano inesauribilmente espressive.
Non so quanto certe etichette abbiano un senso quando sono usurate dalla consuetudine storica, ma qui vorrei restituire alle parole il loro significato autentico e, direi quasi, etimologico usando la formula ” espressionismo astratto”. La dimensione espressionista é raccolta nei suoi elementi originari, autentici, come dato emozionale e come straordinaria capacità espressiva, anche sul piano tecnico; l’astrazione non é invece solo un dato identificabile coll’anaconico, ma va considerata un processo nel corso del quale la volontà d’arte si affina e si depura, rispetto al magma psichico. Lo stato d’animo così viene indagato, dapprima oggettivato e successivamente reintrodotto nel soggetto, non come dato di soggettività (opportunamente Enzo Di Martino ha parlato, a proposito della pittura della Cazzadori, di immaginazione inoggettiva di grande intensità), ma come prodotto di una elaborazione psicologica divenuta progressivamente cosciente. E’ così che lo stato d’animo trova nel corso della elaborazione produttiva una collocazione definita, che non é immediata come la pennellata ( e quindi fa posto alla riflessione), ma é ben più di quella indelebile ed immutabile, perché preceduta da una forte opera di contenimento dell’erosione dei valori affettivi che la produzione artistica, specie se sottoposta a strategie tecniche, inevitabilmente produce. E’ questo il punto di intersezione fra la grafica e la pittura, che indica la via d’uscita dalle secche della modernità, scelta da Maria Teresa Cazzadori. E se questo pare essere il processo produttivo dalla parte dell’artista, c’é però anche una fenomenologia della visione che interessa lo spettatore, perché senza questa sorta di lettore implicito dell’opera l’artista é del tutto inerte. E non é solo un problema di coinvolgimento o di gusto e quindi di apprezzamento. Davanti ad opere di questo genere e di indubbia qualità) l’aspetto emozionale, così dichiaratamente intenso, ancorché incanalato, nel produttore, deve al contrario essere controllato e ridotto (cioè ricondotto a motivi di ordine consapevolmente razionale) da parte del fruitore. La visibilità dell’opera non ammette reticenze, ma impone riflessione. I graffiti, le larghe fasce, gli incroci del colore, la verticalità o l’orizzontalità dell’impianto, la a-cronica di certe opere, non si lasciano scontare con la semplice osservazione. E poi la serie delle opere impone l’esigenza di una osservazione graduata, di un confronto, di una visione analitica, che trascenda gli elementi costitutivi della singola opera per andare a ritrovarli, come lettere di diverse parole, uno per uno nei diversi quadri, riscontrando le variazioni di senso e di significato, le reazioni diverse che si determinano nel costituirsi dell’opera da colore a forma e da forma a luce, secondo un processo che é sovvertito rispetto alle procedure consuete, che per lo più segnano il passaggio dalla forma al colore e da questo alla luce. Certo che ogni singola opera ha una sua vita ed una sua autonomia anche visiva, ma in questo caso più che in altri é la serie che determina il significato in un espandersi di motivi ora quotidiani ed episodici, ora profondamente metafisici e sistematici. Ed allora scopri le sue dimensioni plurime: due variazioni spaziali, bidimensionali con allusioni bizantine ed il senso dell’antico e dell’arcano e pluridimensionali con effetti affascinanti di aperture cosmiche, entrambe queste possibili dimensioni spaziali, che non sempre si escludono, ma in certe opere coesistono, rinviano a varianti temporali. La temporalità trova nel singolo quadro l’attimo, dove il tempo, nell’esperienza della visibilità, fa gorgo e sfiora l’ eterno e nella serie trova la durata, che partecipa dell’esperienza dell’emozione psicologica. Il tempo é storico nella bidimensionalità e nei graffiti ma con modulazioni e significati diversi, assume ENNE dimensioni nella spazialità cosmica, diventa durata psicologica nella manifestazione di emozioni più o meno intense, o si appiattisce nel tempo cronico spazializzato dell’orologio e del calendario, che scandisce la nostra vita quotidiana. E forse una indagine più accurata accerta ulteriori implicazioni spazio-temporali. In ogni caso la temporalità della singola opera non é la temporalità della serie, che manifesta un ritmo ulteriore nella scansione delle diverse opere. ” GUARDA come le cose tra loro distanti sono invece – per opera della mente saldamente unite- infatti non scinderai l’ente dalla sua connessione con l’essere”. Così scriveva, nel V secolo a.C. il filosofo Parmenide Di Elea, nella Magna Grecia, e spiegava, senza chiamarla per nome, quella particolare operazione mentale che si definisce “REDUCTIO AD UNUM”. Ed é l’operazione che presiede alla contemplazione di queste opere poste tutte assieme, allineate sulle pareti di una galleria. Una sorta di poema sinfonico, che ha per oggetto noi stessi.